Durante gli ultimi anni i fenomeni migratori sono al centro del dibattito politico. Però raramente consideriamo che esistono persone che migrano, non per ragioni economiche o politiche, ma per ricevere cure mediche. Solo chi ha vissuto in prima persona questo tipo di spostamento, o ha conosciuto l’esperienza di un proprio parente o conoscente, sa cosa implica la scelta di migrare dalla propria città per curarsi.
Le migrazioni sanitarie sono un fenomeno completamente rimosso dal dibattito pubblico, e lo testimonia anche una precisa scelta lessicale. In inglese spesso si usa l’espressione “medical tourism”, ma usare la parola turismo – una parola che spesso associamo a esperienze positive – è un modo per edulcorare il concetto, e non prendere in considerazione tutta una serie di conseguenze delle migrazioni sanitarie tutt’altro che piacevoli.
Chi migra per curarsi lontano dalla propria città va incontro infatti a una serie di disagi. Secondo un sondaggio realizzato dall’istituto Censis nel 2017, la distanza è un fattore determinante: la maggior parte di coloro che hanno patito disagi lamenta l’onerosità dei costi monetari dovuti allo spostamento. Ma anche le difficoltà di ordine psicologico ed emozionale non sono da sottovalutare, insieme al senso di solitudine che l’essere ricoverati lontano da casa può produrre nei pazienti.
Poi accanto ai disagi patiti dai ricoverati si sommano quelli sopportati dalle persone che durante la degenza ospedaliera hanno prestato loro assistenza (i cosiddetti caregiver). Tra le difficoltà più frequenti dei caregivers spiccano: i costi monetari, la lontananza da casa, la necessità di doversi assentare dal lavoro e il minor tempo dedicato a sé stessi.
Insomma migrare per curarsi in un’altra città crea numerosi disagi spesso sottaciuti, ed è giusto che oggi finalmente si apra un dibattito serio e costruttivo su questi temi.